FORTUNA E SFORTUNA
Ti ritieni una persona fortunata o sfortunata? Tutti dicono che dobbiamo coltivare dei pensieri positivi, eccetera, ma solo in anni relativamente recenti gli psicologi si sono finalmente decisi a studiare quali siano le differenze tra chi si ritiene fortunato e chi si ritiene sfortunato. Risulta ad esempio che gli "sfortunati" hanno la vita più dura perchè prendono troppo sul serio i compiti e non lasciamo fluire la loro visuale, non sono aperti alla fortuna. Almeno questa è la lettura che sembra si possa dare del famoso "esperimento della rivista", compiuto da Richard Wiseman (il suo libro è stato tradotto in italiano con il titolo: "Il fattore fortuna", Sonzogno). Vediamo l'interessante esperimento. Una volta formati due gruppi, quello delle persone che si ritenevano fortunate e quello delle persone che si ritenevano sfortunate, Wiseman diede ad ogni persona una rivista, chiedendo di contare quante immagini conteneva la rivista. Chi si riteneva "sfortunato", si impegnò coscienziosamente nella conta e ci impiegò un buon paio di minuti. Invece la maggioranza di quelli che si ritenevano fortunati aveva finito dopo due secondi... perchè avevano notato a pagina 2 una nota che diceva: "Non contate oltre, questa rivista contiene 43 foto". Per lo sperimentatore, i fortunati sono fortunati perchè vedono quello che c'è e non solo quello che cercano sul momento, quindi colgono occasioni che gli "sfortunati" non vedono perchè chiudono la loro visuale. Già decenni addietro, si parlava della "profezia che si autoavvera", cioè se ci aspettiamo qualcosa di negativo e siamo convinti che accadrà, faremo inconsciamente in modo che possa accadere, aiuteremo le circostanze che potranno portare in tale direzione, magari senza rendercene conto. Parimenti, se siamo convinti che raggiungeremo il risultato positivo, questo sarà più agevole da raggiungere. Appare evidente la grande responsabilità dell'astrologo nell'aiutare il cliente a vedere le opportunità positive dei passaggi dei pianeti, cosa non sempre facile, specie se il cliente non riesce a cambiare la sua visuale o se i passaggi dei pianeti sono particolarmente complessi da gestire. Secondo Wiseman, ognuno può migliorare la propria fortuna e, con l'allenamento, un buon 80% dei suoi soggetti "sfortunati" ha visto dei miglioramenti dopo un mese. Dunque, la fortuna è attribuibile alla psiche: le persone fortunate hanno un atteggiamento più rilassato verso la vita e, proprio perchè sono più rilassati, riescono a cogliere delle opportunità che chi è teso e preoccupato non vede. Wiseman dice che "le persone fortunate vedono quello che c’è, anziché cercare ciò che vogliono vedere"; l’apertura a nuove esperienze permette di superare certe rigidità mentali: se si fanno sempre le stesse cose, si incontrano meno opportunità. La fortuna spesso deriva anche dal fatto di prendere le giuste decisioni e chi si considera fortunato prende effettivamente le buone decisioni. Wiseman si è chiesto come mai queste persone riescono a decidere per il verso giusto ed è arrivato alla conclusione che questi soggetti hanno un buon rapporto con la loro intuizione, si fidano del loro intuito. L’intuizione si forma da una gran quantità di indizi presenti nell’ambiente circostante che sono percepiti al di là della consapevolezza razionale. Naturalmente anche le persone che si considerano sfortunate percepiscono in parte tali indizi, ma poi, all'atto pratico di decidere, non ne tengono conto, perchè non si fidano del loro intuito. Ma l'intuizione si può coltivare, potenziare, e, dice Wiseman, le persone fortunate coltivano attivamente il loro intuito, dedicando del tempo alla meditazione o al rilassamento. Io vorrei aggiungere che forse l'astrologia può essere uno strumento in più per far lavorare meglio la nostra intuizione. Ma ci sono anche altri fattori: i soggetti fortunati ritengono importante uscire spesso per conoscere persone nuove, questo accresce la probabilità di avere incontri positivi che potrebbero stimolare la loro vita. I fortunati hanno più fiducia e perseverano nel raggiungimento dei propri obiettivi, mentre gli sfortunati si arrendono prima e più facilmente. Wiseman afferma che chi si considera fortunato in linea di massima otterrà ciò che vuole, come se fosse una profezia autoavverante. La persona "fortunata" ritiene di meritarsi delle cose positive e ha l'impressione di poter esercitare un certo potere sul loro effettivo ottenimento. Lo sfortunato, invece, tende a considerarsi in balia degli eventi. Prendi carta e penna, disegna 2 cerchi, poi leggi il risultato scorrendo la pagina sinastria.
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Siamo tutti un po' pecoroni?
Ecco uno degli esperimenti più importanti (e sconvolgenti) della storia della psicologia sociale. Lo psicologo Milgram raccolse dei soggetti e disse che avrebbero percepito una ricompensa per partecipare ad un esperimento sulla memoria e sull’apprendimento. In realtà non era questo lo scopo dell’esperimento, come poi vedremo. Ai soggetti fu detto che metà di loro avrebbero avuto il ruolo di "insegnante" e l’altra metà di ruolo di "allievo". In realtà tutti i soggetti ebbero il ruolo di "insegnante", mentre il ruolo di allievo era ricoperto da un "complice" dello psicologo. In sostanza chi aveva il ruolo di "insegnante" doveva somministrare una scossa elettrica all’allievo, se l’allievo sbagliava durante l’apprendimento. L’intensità della scossa doveva essere aumentata ad ogni errore. L'insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte ad un quadro di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva, sotto ognuno dei quali era scritto il voltaggio, dai 15 Volt del primo ai 450 dell'ultimo. Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: 1-4 scossa leggera, 5-8 scossa media, 9-12 scossa forte, 13-16 scossa molto forte, 17-20 scossa intensa, 21-24 scossa molto intensa, 25-28 attenzione: scossa molto pericolosa, 29-30 XXX. Gli fu fatta sperimentare una scossa di 45 Volt, corrispondente alla leva n. 3, al fine di fargli credere alla realtà delle scosse. Invece l’allievo (complice dello sperimentatore) era legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande e fingere di percepire la scossa, reagendo con implorazioni e grida al progredire dell'intensità delle scosse (che in realtà non percepiva), finché, raggiunti i 330 Volt, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse. Lo sperimentatore, durante la prova, incitava in modo pressante il soggetto "insegnante" dicendo che doveva continuare, nonostante i lamenti e le grida del soggetto "allievo". Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima di interrompere la prova. Al termine, i soggetti furono informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa e che anche la maggioranza degli altri partecipanti aveva reagito in modo simile. La maggioranza dei partecipanti obbedì allo sperimentatore, infliggendo scosse elettriche pericolose e potenzialmente mortali al soggetto "allievo". I soggetti dell'esperimento non si sono sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma si sono visti come semplici esecutori di un’autorità. L’insorgere di questa condizione (chiamata stato eteronomico) dipende da tre fattori: - adesione all’autorità (l'educazione all'obbedienza fa parte della socializzazione) - percezione di legittimità dell'autorità (nella condizione specifica, lo sperimentatore rappresentava l'autorevolezza della scienza) - pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore significava metterne in discussione la validità o rompere l'accordo stabilito con lui). L’esperimento di Milgram è stato realizzato nel 1961, mentre si discuteva ancora molto sulle atrocità commesse dai nazisti (era in corso un processo a Gerusalemme contro Eichmann). Le numerose ricerche di altri psicologici che hanno successivamente riprodotto il suo l’esperimento hanno tutte pienamente confermato i risultati ottenuti da Milgram. IPSE DIXIT Nel Medioevo e anche oltre, si dava grande credito ad Aristotele. Tutto quanto era stato detto dall’antico filosofo era preso per oro colato. Quando si discuteva su qualcosa e due persone non erano d’accordo su una certa questione, si andava a vedere cosa avesse detto Aristotele al riguardo. Ad esempio, Aristotele disse che tutti i nervi partono dal cuore. Durante una dissezione di cadavere, il medico che praticava la dissezione volle dimostrare che questo non era vero, ma si vide tappare la bocca con la famosa frase: "Ipse dixit", cioè l’ha detto lui, lui in persona (Aristotele). Quindi se qualcosa era stato detto da Aristotele, considerato la massima autorità scientifica per secoli e secoli, non si poteva discutere. Ogni discussione era messa a tacere con la frase "Ipse dixit". Solo argomenti che non erano stati trattati da Aristotele potevano avere qualche speranza di essere oggetto di discussione e confronto. Ancora nel Seicento, il grande Galileo doveva lottare contro questa mentalità. |
Animale, Colore, Acqua
Pensa ad un animale e associa a questo animale almeno tre aggettivi. Scrivili, altrimenti te li dimentichi.
Pensa ad un colore che ti piace e associa tre aggettivi al colore, scrivili. Ora passiamo alle forme dell’acqua. Immagina una forma dell’acqua, ad esempio il ruscello, il mare, il fiume, una cascata, un lago, una piscina... sta a te immaginare. Scrivi almeno tre aggettivi associati. Leggi il "risultato" o, diciamo meglio, degli spunti interpretativi, nella pagina "risposta interiore".
Pensa ad un colore che ti piace e associa tre aggettivi al colore, scrivili. Ora passiamo alle forme dell’acqua. Immagina una forma dell’acqua, ad esempio il ruscello, il mare, il fiume, una cascata, un lago, una piscina... sta a te immaginare. Scrivi almeno tre aggettivi associati. Leggi il "risultato" o, diciamo meglio, degli spunti interpretativi, nella pagina "risposta interiore".
La differenza tra pensare e parlare: un esempio banale per una conclusione importante
Se tieni le cose solo dentro alla tua mente, la tua visuale della questione è molto diversa, rispetto al fatto di parlarne con qualcuno, oppure perfino di esprimerle ad alta voce.
A tutti noi è capitato di non trovare un oggetto che pure ci pareva di avere messo nel solito posto: le chiavi dell'auto, una ricevuta, gli occhiali, un anello. La difficoltà a trovare l'oggetto è più probabile se siamo impazienti o se siamo di fretta. L'oggetto non vuole saltar fuori.
In un'occasione, conobbi a Venezia una signora francese e le dissi che vivo a Padova, precisando, per farle capire, che è la città di Sant'Antonio da Padova. La signora mi disse: "Ah sì, il Santo che fa ritrovare gli oggetti perduti! Una volta non trovavo più una collana, l'ho pregato e la collana è saltata fuori. Anche in altre occasioni mi ha fatto ritrovare ciò che cercavo!"
Naturalmente io ero alquanto scettica: pensavo che gli oggetti venissero ritrovati per caso e che la signora attribuisse il ritrovamento alla preghiera. Mi pareva alquanto superstizioso pregare un santo (quello che, per i padovani, è "il Santo") per un fine così banale e terreno come il ritrovamento di un oggetto materiale. Tuttavia mi capitò di incontrare altre persone francesi che avevano preso l'abitudine di pregare Sant'Antonio per ritrovare degli oggetti e anche loro mi confermarono che "funzionava". A quel punto, mi chiesi se non poteva esserci lo zampino di qualche meccanismo psicologico.
Vediamo come si pone la questione degli oggetti che non saltano fuori e che poi "stranamente" riappaiono. C'è di mezzo la questione di qualche piccola amnesia che, nell'ansia, nella fretta o nella sbadataggine, può capitare a chiunque. All'inizio si cerca con convinzione dove si credeva di aver riposto l'oggetto, poi si passa a ricerche più approfondite, senza risultato, ci si spazientisce e alla fine si abbandona la ricerca. Quando non lo cerchiamo più, magari l'oggetto salta fuori e non capiamo come mai non l'abbiamo visto. Il biologo Robert Trivers sostiene che questa condizione di "guardare senza vedere" dipende dal fatto che abbiamo due emisferi cerebrali: nel momento cruciale in cui cerchiamo un oggetto, i due emisferi non collaborano a dovere e non si passano l'un l'altro le informazioni utili al ritrovamento dell'oggetto. L'oggetto è intravisto da un emisfero, ma la notizia non arriva all'altro emisfero, che sta cercando l'oggetto. Lo studioso suggerisce di "chiamare" l'oggetto, cioè di evocarlo, di profferire il nome dell'oggetto, per esempio bisogna dire: "Dove sono le chiavi della macchina?".
Così l'emisfero destro si ricollega con il sinistro e ci fa vedere l'oggetto che prima aveva guardato senza vederlo come importante e senza segnalarlo, ora invece lo segnala.
La preghiera rivolta a Sant'Antonio ha, in realtà, la stessa funzione. La signora esprime la preghiera ad alta voce e in questo modo evoca l'oggetto, l'emisfero destro recepisce l'informazione e riconosce e ritrova l'oggetto o rievoca più facilmente il luogo e le circostanze in cui è stato lasciato.
Tutto questo discorso sembra appartenere alla psicologia spicciola della vita quotidiana, ma permette un interrogativo: se il semplice nominare un oggetto che si sta cercando produce, nella maggior parte dei casi, il ritrovamento dell’oggetto, quali effetti può produrre il fatto di verbalizzare stati d’animo, dubbi, interrogativi, problemi? Se, anziché tenere dentro di sé, inespressi, i problemi e il disagio, li esprimiamo a qualcuno (un amico, l’astrologa, lo psicologo) magari la nostra visuale della questione può assumere nuove angolature ed avvicinarci ad una migliore gestione della situazione.
Se tieni le cose solo dentro alla tua mente, la tua visuale della questione è molto diversa, rispetto al fatto di parlarne con qualcuno, oppure perfino di esprimerle ad alta voce.
A tutti noi è capitato di non trovare un oggetto che pure ci pareva di avere messo nel solito posto: le chiavi dell'auto, una ricevuta, gli occhiali, un anello. La difficoltà a trovare l'oggetto è più probabile se siamo impazienti o se siamo di fretta. L'oggetto non vuole saltar fuori.
In un'occasione, conobbi a Venezia una signora francese e le dissi che vivo a Padova, precisando, per farle capire, che è la città di Sant'Antonio da Padova. La signora mi disse: "Ah sì, il Santo che fa ritrovare gli oggetti perduti! Una volta non trovavo più una collana, l'ho pregato e la collana è saltata fuori. Anche in altre occasioni mi ha fatto ritrovare ciò che cercavo!"
Naturalmente io ero alquanto scettica: pensavo che gli oggetti venissero ritrovati per caso e che la signora attribuisse il ritrovamento alla preghiera. Mi pareva alquanto superstizioso pregare un santo (quello che, per i padovani, è "il Santo") per un fine così banale e terreno come il ritrovamento di un oggetto materiale. Tuttavia mi capitò di incontrare altre persone francesi che avevano preso l'abitudine di pregare Sant'Antonio per ritrovare degli oggetti e anche loro mi confermarono che "funzionava". A quel punto, mi chiesi se non poteva esserci lo zampino di qualche meccanismo psicologico.
Vediamo come si pone la questione degli oggetti che non saltano fuori e che poi "stranamente" riappaiono. C'è di mezzo la questione di qualche piccola amnesia che, nell'ansia, nella fretta o nella sbadataggine, può capitare a chiunque. All'inizio si cerca con convinzione dove si credeva di aver riposto l'oggetto, poi si passa a ricerche più approfondite, senza risultato, ci si spazientisce e alla fine si abbandona la ricerca. Quando non lo cerchiamo più, magari l'oggetto salta fuori e non capiamo come mai non l'abbiamo visto. Il biologo Robert Trivers sostiene che questa condizione di "guardare senza vedere" dipende dal fatto che abbiamo due emisferi cerebrali: nel momento cruciale in cui cerchiamo un oggetto, i due emisferi non collaborano a dovere e non si passano l'un l'altro le informazioni utili al ritrovamento dell'oggetto. L'oggetto è intravisto da un emisfero, ma la notizia non arriva all'altro emisfero, che sta cercando l'oggetto. Lo studioso suggerisce di "chiamare" l'oggetto, cioè di evocarlo, di profferire il nome dell'oggetto, per esempio bisogna dire: "Dove sono le chiavi della macchina?".
Così l'emisfero destro si ricollega con il sinistro e ci fa vedere l'oggetto che prima aveva guardato senza vederlo come importante e senza segnalarlo, ora invece lo segnala.
La preghiera rivolta a Sant'Antonio ha, in realtà, la stessa funzione. La signora esprime la preghiera ad alta voce e in questo modo evoca l'oggetto, l'emisfero destro recepisce l'informazione e riconosce e ritrova l'oggetto o rievoca più facilmente il luogo e le circostanze in cui è stato lasciato.
Tutto questo discorso sembra appartenere alla psicologia spicciola della vita quotidiana, ma permette un interrogativo: se il semplice nominare un oggetto che si sta cercando produce, nella maggior parte dei casi, il ritrovamento dell’oggetto, quali effetti può produrre il fatto di verbalizzare stati d’animo, dubbi, interrogativi, problemi? Se, anziché tenere dentro di sé, inespressi, i problemi e il disagio, li esprimiamo a qualcuno (un amico, l’astrologa, lo psicologo) magari la nostra visuale della questione può assumere nuove angolature ed avvicinarci ad una migliore gestione della situazione.